Cosa stiamo imparando dalla crisi generata dal Covid-19?
A settembre 2020, il post Lezioni dalla crisi – alcune parole andidoto su cui riflettere – provava a rispondere a tale quesito mettendo a fuoco 5 concetti o parole chiave su cui riflettere. Si trattava di un esercizio particolarmente difficile vista la drammaticità e complessità della crisi in atto, che stava investendo diversi ambiti della nostra esistenza. Un tentativo reso ancor più problematico considerando che non vi era la necessaria distanza prospettica per analizzare a fondo gli impatti della crisi. Tuttavia, si era detto allora, provare a ragionare sui principali elementi di criticità che si stavano evidenziando poteva rappresentare un esercizio utile sotto diversi aspetti. In primo luogo, in quanto tentativo di trasformare un evento drammaticamente negativo in lezioni utili per migliorare l’organizzazione dei sistemi economici e sociali in cui viviamo; in secondo luogo, perché potevano scaturire suggerimenti per provare a ridurre gli impatti negativi ed a velocizzare la via di uscita dalla crisi. Le principali direttrici di ricerca, senza ovviamente pretesa di esaustività ne di profondità di analisi, che allora si erano evidenziate erano il DATA MGMT, , il CLUSTERING, il DIGITALE, il rapporto PUBBLICO/PRIVATO e il tema della FLESSIBILITA’ sia materiale che soprattutto culturale; tutte dimensioni che potevano essere lette sia con la lente delle imprese che con quella delle istituzioni pubbliche.
Ora, 10 mesi dopo, purtroppo, siamo ancora nel pieno della crisi, la via di uscita dalla quale sembra ancora incerta e i 5 elementi evidenziati allora mantengono la loro centralità. L’evolversi della crisi, in particolare in quest’ultima fase sta evidenziando ulteriori elementi, forse meno rilevanti rispetto a quelli già evidenziati, ma che può essere utile sottolineare, sempre nell’ottica di trasformare un evento negativo in un momento di apprendimento. La storia è piena di momenti di grande crisi, e tali momenti sono anche quelli in cui le società pongono in essere trasformazioni tali da definire nuovi paradigmi che possono aprire nuove traiettorie di sviluppo.
Il primo elemento da aggiungere è COMUNICAZIONE. Si tratta forse del termine può usato e forse abusato nel periodo storico che stiamo vivendo, tanto da influenzarne la definizione, La Società dell’informazione, appunto. Ebbene, ciò nonostante, la comunicazione della crisi in molti momenti è apparsa poco adeguata rispetto alla portata dell’evento che stavamo vivendo ed è mancata dei principali elementi di base, potremmo dire da manuale. Questo non è stato un fenomeno solo italiano ma probabimente globale. La comunicazione in un momento di crisi, lo sappiamo, è una leva strategica fondamentale e dovrebbe poggiare su alcuni elementi di base. Il primo è l’identificazione di un canale unico, un punto centrale di comunicazione e non disperdersi in una molteplicità di voci, a volte anche discordi. Il secondo elemento è la sobrietà comunicativa. Poche informazioni e nella forma più semplice possibile. Naturalmente la società dell’informazione tende a produrre notizie in eccesso, ebbene se anche da parte dei policy makers e degli esperti di settori si esagera nella produzione di notizie ed informazioni, l’esito è una vera e propria overdose informativa che genera una ‘volatilità emotiva’ impossibile da gestire nei suoi esiti individuali e sociali. Il terzo elemento è quello della ripetizione di messaggi certi; qui l’esempio è quello sulle norme di base da seguire per evitare il contagio, 2 esempi su tutti, il corretto utilizzo delle mascherine ed i comportamenti da seguire in termini di distanziamento nei momenti di svago. Il quarto elemento è il tipo di comunicazione; l’utilizzo di una comunicazione previsionale rispetto ad una comunicazione fattuale che potremmo definire ‘storica’. Prima le azioni, i fatti, e poi le comunicazioni. In questo aspetto, il governo Draghi sembra proprio aver inaugurato una fase nuova che va proprio in questa direzione. E non si tratta di una novità così semplice come può sembrare a prima vista ma tale da modificare nel profondo il modo di fare comunicazione istituzionale. Si tratta, ovviamente, di un fenomeno in nuce e andrà osservato e capito nel tempo.
Il secondo elemento da aggiungere è quello che si può definire come RISCHIO DI CONCENTRAZIONE, che rappresenta per chi si occupa di risk mgmt un elemento essenziale nella definizione di un framework complessivo ed adeguato. Un esempio che possiamo trarre dalle gestione della crisi, è quello che riguarda il tema dei vaccini. Da una certa fase in poi, è sembrato che tutte le energie e tutta l’attenzione dei policy makers si fosse concentrata su quest’aspetto. Chiaramente è il tema centrale per l’uscita dalla crisi, ma non è l’unico. Vi sono, ad esempio, altri aspetti importanti che, almeno nella percezione comune, non sono più stati adeguatamente affrontati, come l’utilizzo su larga scala di anticorpi monoclonali, la definizione di protocolli di cura uniformi, il potenziamento delle strutture sanitarie e parasanitarie, oltre al noto tema del tracciamento e dell’identificazione puntuale dei fattori e momenti di contagio. Una strategia complessiva di risk mgmt deve necessariamente evitare che tutto si concentri su un unico aspetto, che se presenta ritardi o problemi nella sua implementazione genera immediatamente crisi e reazioni scomposte. Si tratta appunto di gestire il rischio di concentrazione.
Il recovery plan rappresenta un’occasione storica per le imprese europee e italiane per avviare/sviluppare/completare ( secondo il relativo punto di partenza) il percorso trasformativo verso la sostenibilità.
Per realizzare questo percorso vi sono, a mio avviso, 4 pilastri fondamentali.
1) Prodotti e servizi sostenibili. Tutto il ciclo di vita di ogni prodotto deve essere sostenibile, dall’ideazione alla vendita fino anche alla gestione dello scarto.
2) Tecnologie digitali. La tecnologia rappresenta un fattore abilitante della sostenibilità. Datacenters su larga scala sostenibili basati su cloud, IA, blockchain per la gestione dei fornitori, sono alcuni esempi.
3) La gestione delle risorse umane. Ambienti di lavoro inclusivi e meritocratici; formazione continua ( upskilling, reskilling); work-life balance, gli elementi imprenscindibili.
4) Metriche di misurazione. Definire metriche chiare e che utilizzino il linguaggio dei CFO. Sarebbe auspicabile superare la distinzione tra reporting finanziario e reporting ESG. Il ROSI (return on sustainable investment) elaborato dal center for sustainable business della NYU Stern è un buon punto di partenza.
“Supponiamo adesso che un giorno un elicottero sorvoli questa comunità e lanci 1.000 dollari dal cielo, che, ovviamente, verrebbero frettolosamente raccolti dai membri della comunità. Supponiamo inoltre che tutti siano convinti che questo è un evento unico che non sarà mai più ripetuto” (M. Friedman, The Optimum Quantity of Money, 1969).
Questa provocazione dell’economista Milton Friedman risale al 1969 ed ha introdotto nel dibattito economico il concetto di Helicopter Money. Secondo Friedman, se tutte le politiche tradizionali di politica monetaria non dovessero funzionare e non si riuscisse a trasmettere denaro dallo Stato all’economia reale, allora si potrebbe ricorrere alla distribuzione di denaro gettandolo da un elicottero, determinando così un aumento dell’inflazione e stimolando la crescita. Si tratta di un’opzione effettivamente percorribile? Potrebbe essere una risposta efficace per contrastare gli effetti della crisi in atto? Sappiamo che alcuni economisti, banchieri centrali, centri studi pubblici e privati ed alcune istituzioni universitarie ne discutono. Anche la business community sembra seguire con attenzione il dibattito. Nel 2002 Ben Bernanke suggerendo alla Bank of Japan di stampare denaro per finanziare un taglio delle tasse in modo da distribuire la moneta direttamente sull’economia di fatto riprende il concetto di Friedman ( in questo caso si formulò l’espressione Helicopter drops). Ma è nel 2015 con la pubblicazione del testo ‘Between debt and the devil’ ad opera di Adair Turner che la teoria dell’Helicopter Money trova una elaborazione importante da parte di un economista che ha avuto un ruolo determinante nella gestione della crisi iniziata nel 2007-2008 (quando Turner era presidente della Financial Service Authority inglese). Secondo l’economista inglese il Quantitative Easing da solo non riesce a garantire uno stimolo sufficiente all’economia, e suggerisce che le aree economiche che si trovano in una situazione caratterizzata da bassi livelli di crescita, bassi tassi di interesse, debiti significativi, dovrebbero considerare l’ipotesi di creare moneta e distribuirla ai cittadini. La domanda di beni e servizi verrebbe stimolata in modo proporzionale al valore della moneta creata. Come potrebbe avvenire questo trasferimento? Riprendendo i suggerimenti di Turner, il meccanismo potrebbe richiedere un’emissione di un’obbligazione GOVT perpetua e con rendimento nullo ( o con rendimento legato ad un parametro come il tasso di crescita del PIL), che verrebbe acquistata dalla Banca Centrale. Il ricavato dell’emissione verrebbe gestito direttamente dal governo ( o meglio dal parlamento). Di fatto vi sarebbe un trasferimento dalla Banca Centrale sui conti correnti senza impatto sui bilanci dello Stato. Diverse sono le obiezioni che sono state formulate nel tempo da molti economisti. Le principali riguardano lo sconfinamento delle Banche Centrali nella politica fiscale, e, in Europa, ci potrebbero essere degli ostacoli aggiuntivi dati dai trattati europei che pongono dei limiti al finanziamento monetario esplicito del deficit pubblico. Ci sono poi obiezioni di natura più chiaramente politica come l’utilizzo che i governi potrebbero fare di questo strumento (utilizzando le risorse per scopi elettorali). L’esito del dibattito intorno alla teoria dell’Helicopter money sarà probabilmente anche determinato dall’evoluzione della crisi e dalla sua intensità. Un aspetto però, a mio avviso, rimane cruciale ed è la capacità di indirizzare le risorse generate da questo o da altri meccanismi verso l’aumento effettivo dei consumi, auspicabilmente all’interno di un piano organico di stimolo che favorisca i settori economici strategici e con prospettive reali di ripresa.
Cosa stiamo imparando dalla crisi generata dal Covid-19? Rispondere a tale quesito appare un esercizio particolarmente difficile vista la drammaticità e complessità della crisi in atto, che investe diversi ambiti della nostra esistenza. Un tentativo vieppiù problematico considerando che siamo ancora nel pieno della crisi e non abbiamo, quindi, la necessaria distanza prospettica per analizzarne a fondo gli impatti. Tuttavia, provare a ragionare sui principali elementi di criticità che si stanno evidenziando può rappresentare un esercizio utile sotto diversi aspetti. In primo luogo, in quanto tentativo di trasformare un evento drammaticamente negativo in lezioni utili per migliorare l’organizzazione dei sistemi economici e sociali in cui viviamo; in secondo luogo, perché possono scaturire suggerimenti per provare a ridurre gli impatti negativi ed a velocizzare la via di uscita dalla crisi. Di seguito alcune direttrici di ricerca, senza ovviamente pretesa di esaustività ne di profondità di analisi. Si tratta, in buona sostanza, di alcuni spunti di riflessione forieri di possibili sviluppi. La prima considerazione riguarda i BIG DATA. La crisi mette in luce in modo ormai inequivocabile la centralità dei dati in qualunque processo decisionale. In ambito micro e macro economico, nei quali questo tema appare oggi più consolidato, ma anche in quello politico e sociale, con le tutte le necessarie declinazioni. Si pensi, ad esempio, alle politiche sanitarie, oggi necessariamente al centro dell’attenzione, che proprio in questi ultimi giorni stanno mostrando, a mio avviso, una certa difficoltà nel comprendere la cosiddetta seconda ondata della Pandemia, per un utilizzo insufficiente e, forse, inadeguato dei dati sottostanti. Un secondo elemento importante è rappresentato dall’attività di CLUSTERING, ovvero quell’insieme di tecniche di analisi multivariata volte alla selezione e raggruppamento di elementi omogenei. Potrebbe essere considerata come un sottopunto del precedente, ma merita per la sua rilevanza una sottolineatura specifica. Si tratta, anche qui, di un’attività da tempo centrale in ambito aziendale per il marketing e per la definizione delle strategie, che deve trovare la sua giusta consacrazione anche in ambito politico non solo ai fini elettorali ma anche in ottica amministrativa e gestionale. L’esempio più immediato è di nuovo rappresentato dalla sfera sanitaria, in cui sembra in ritardo la puntuale identificazione della popolazione fragile e più vulnerabile al virus in un’ottica medico/biologica, basata sul tipo di risposta dei diversi organismi. L’utilità evidente sarebbe quella di declinare le restrizioni in funzione dell’identificazione di cluster di vulnerabilità al virus in maniera puntuale e rigorosa, evitando così restrizioni generalizzate che comportano danni economici evidenti. Un terzo aspetto che emerge con chiarezza dalla crisi è l’importanza del DIGITALE, che ha rappresentato e rappresenta un fattore critico di successo non solo per le aziende ma per i sistemi economici e sociali tout court. L’esempio chiaro è quello delle tante attività private e pubbliche che hanno fatto leva sul lavoro da remoto per rispondere alla crisi. In molti casi, invero, l’accelerazione digitale imposta dalla crisi sta migliorando sia l’efficienza dei processi sia la qualità dei servizi offerti. Il digitale può, inoltre, contribuire a ripensare il contesto urbano con evidenti benefici sistemici. Un quarto tema, a mio avviso, è quello della necessaria ridefinizione dei rapporti PUBBLICO/PRIVATO. In Italia, purtroppo, questo tema è ostaggio di posizioni ideologiche e della eccessiva polarizzazione delle culture politiche predominanti. In tutto il mondo, la crisi, da un lato ci sta ricordando che la dimensione pubblica è necessaria, dall’altro ne evidenzia i limiti. In particolare, il terreno dello scambio di competenze ( che richiama in parte quello della sussidiarietà) può rappresentare il punto di incontro, direi naturale, tra il pubblico ed il privato. Il mondo delle imprese, se recupera una certa vocazione al bene comune, può contribuire molto al miglioramento delle società di riferimento. Da ultimo, la crisi richiama l’importanza del tema della FLESSIBILITA’, come fattore distintivo nell’organizzazione delle imprese e delle società. La flessibilità, a mio avviso, va compresa e praticata sia in ambito concreto, materiale, sia in quello culturale. Sul primo aspetto, l’attenzione va immediatamente al tema del costo variabile Vs il costo fisso, oltre a richiamare le concezioni di organizzazioni lean e agile. Sul versante culturale, particolarmente rilevante a mio avviso, la flessibilità può essere valorizzata come l’antidoto al pensiero ideologico e contrappositivo. Un esempio derivato dalla crisi in atto è quello che riguarda il tema della scuola. Tutti, credo, condividiamo l’importanza della scuola in presenza. Tuttavia, l’aver ragionato in termini di rigidità e di contrapposizione ( in presenza VS da remoto) non ha certamente giovato al contenimento del contagio, rivelandosi peraltro un boomerang proprio nei confronti di quel bene che si diceva di voler tutelare. Un approccio prudenziale, sfruttando la curva di esperienza dell’anno precedente, ed integrato avrebbe prodotto effetti migliori.
La pandemia ha inciso, con un’estensione non ancora definita, su ogni aspetto della vita dell’individuo, della società e delle aziende. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, agli impatti sulle catene del valore globale, con un loro possibile ridimensionamento in termini di estensione geografica, ai nuovi rapporti di forza nello scenario geopolitico, agli impatti sul modo di lavorare e di vivere, alla possibile ridefinizione del rapporto pubblico / privato e così via. Le analisi di scenario sono molteplici e riflettono le differenti sensibilità e prospettive dei soggetti coinvolti a vario titolo in questi esercizi, ma una caratteristica sembra accomunare tutte le analisi: la radicalità del cambiamento.
Nel nuovo contesto che si va delineando, l’incertezza coinvolge in primo luogo le aziende, e fra i vari aspetti che le riguardano, la sostenibilità occupa certamente un ruolo centrale. La domanda principale da porsi riguarda gli effetti che la crisi potrà avere rispetto al fenomeno generale della sostenibilità ed in particolare a quello della sostenibilità aziendale. La crisi genererà un rallentamento o un’accelerazione rispetto alla diffusione della cultura e della pratica della sostenibilità aziendale?
Nelle considerazioni che seguono si proverà a rispondere a questa domanda, con riferimento al contesto italiano. Si svolgeranno alcune considerazioni preliminari per inquadrare storicamente il concetto di sostenibilità aziendale, per poi analizzare lo stato dell’arte della sostenibilità aziendale pre-COVID19, e infine proporre alcune ipotesi di sviluppo.
Sostenibilità e sostenibilità d’i mpresa
La sostenibilità implica un concetto di armonia di medio-lungo periodo dello sviluppo economico, sociale e ambientale, che è stato introdotto dalle organizzazioni internazionali a partire dal 1987 quando le Nazioni Unite affidarono alla Commissione Mondiale sull’ Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED) la redazione di un rapporto sulla situazione mondiale dell’ambiente e dello sviluppo, conosciuto come Rapporto Brundtland (Our Common Future).
Gli sviluppi più recenti sono rappresentati dall’Agenda2030 per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritto nel 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU, che ingloba 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile (SDGs), in un programma di azione che prevede 169 target da raggiungere entro il 2030. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono pienamente condivisi a livello europeo ed inclusi in tutte le priorità della Commissione Europea.
Il termine Responsabilità Sociale D’impresa (CSR – Corporate Social Responsibility) , venne definito dal vertice europeo riunitosi a Lisbona nel 2000 all’interno del “Libro Verde” redatto dalla Commissione Europea come: “ L’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre parti.”
I primi dibattiti sulla CSR però hanno origini molto più lontane, risalgono infatti alla fine del 19° secolo e l’inizio del 20° secolo quando l’opinione pubblica americana aveva portato alla creazione di legislazioni antimonopolistiche, spingendo alcuni industriali (Rockefeller, Carnegie) a sperimentare per la prima volta forme di impegno sociale d’impresa. Da allora, le teorie CSR si sono sviluppate all’interno degli studi sulle teorie d’impresa, alternando momenti in cui hanno occupato un ruolo centrale ad altri in cui sono stati messi in secondo piano.3 Tra gli sviluppi più recenti si trova quello di Porter e Kramer (cfr. Strategy and Society, 2006), grazie al quale prende corpo la teoria del valore condiviso, secondo cui vi è una chiara interdipendenza tra l”impresa e la società: le decisioni di business e le politiche sociali debbano seguire entrambe il principio di valore condiviso, ricercando un beneficio per entrambe le parti. La catena del valore sociale rappresenta ancora oggi un punto di riferimento fondamentale nell’ottica CSR.
La definizione di sostenibilità d’impresa è stata raggiunta in parte in modo autonomo, attraverso una riflessione interna alle teorie d’impresa ed agli studi di management, ma anche grazie alla spinta proveniente dalle Organizzazioni internazionali. Questo è un elemento da considerare e che ha riflessi concreti ancora presenti nella definizione delle politiche di CSR da parte delle aziende.
La situazione della aziende italiane pre-COVID19.
Il trend di diffusione della cultura di CRS presso le imprese italiane negli ultimi anni appare in aumento, sia in relazione al numero di aziende che si dichiarano impegnate in politiche di CSR, sia rispetto all’ammontare di investimenti dedicati ( cfr VIII rapporto Socialis).
La situazione appare più complessa, tuttavia, se si guarda alla effettiva integrazione della sostenibilità nelle strategie di business delle imprese.
Osservazioni interessanti emergono dal report Seize the Change E&Y (pubblicato a Gennaio 2020), che analizza la governance e le strategie di sostenibilità delle aziende italiane con riferimento al cambiamento climatico, agli approvvigionamenti sostenibili, all’economia circolare ed alla finanza sostenibile.
Condotto su un campione di 194 aziende quotate, la ricerca mostra che solo il 32% di esse elabora un Piano di Sostenibilità di medio-lungo periodo e solo il 17% rappresenta una descrizione estesa delle iniziative con obiettivi quantitativi correlati ai Sustainable Development Goals.
Linee di sviluppo
La consapevolezza che oggi la sostenibilità dovrebbe orientare tutte le decisioni e le strategie aziendali creando dei business model orientati al valore condiviso appare elevata. Le imprese sembrano però più attente alle sostenibilità negli aspetti comunicazionali che sostanziali. La sostenibilità non è integrata al 100% nei processi decisionali del management.
Ci sono 2 driver che possono aumentare il livello di integrazione della sostenibilità nel business: il sistema degli incentivi e il risk management.
Il sistema degli incentivi orientato al CSR, alle performance ESG (Environmental, Social, Governance), può rappresentare il fulcro del cambiamento delle culture aziendali ed orientare verso strategie e modelli di business condivisi, che abbiano la sostenibilità come elemento di fondo. Da sempre il sistema degli incentivi è considerato un potente driver di cambiamento. Rispetto alla CSR esistono però 3 grandi aree di attenzione che possono spiegare il motivo per cui finora le esperienze aziendali non hanno generato grandi risultati in termini di incremento delle performance di sostenibilità delle aziende.
1 ) Difficoltà nella misurazione degli obiettivi di CSR. Spesso vengono identificati obiettivi qualitativi non misurabili con certezza. Più in particolare :
Economia circolare: lo studio Size the change non ha rilevato una forte spinta da parte delle aziende nella definizione di una strategia di economia circolare. In particolare, solo il 10% delle aziende ha messo a punto una strategia dedicata. L’economia circolare è vista e vissuta come una modalità per migliorare i processi aziendali. Infatti, il 46% delle iniziative rilevate è focalizzato solo su processi e/o prodotti; le iniziative rivolte all’esterno, ossia al settore industriale di appartenenza o ad altri settori industriali sono solo il 20% di quelle rilevate.
Finanza sostenibile: il 70% delle società del settore bancario e assicurativo analizzate ha avviato iniziative di finanza sostenibile. Il 61% di quelle mappate consiste in investimenti indiretti in iniziative o fondi e titoli ad alto impatto socio-ambientale, seguite, al 36%, da finanziamenti diretti. Dalla ricerca emerge che il 50% delle società nel settore Banking & Insurance considera le tematiche ESG nelle proprie scelte di investimento, in particolare quelle legate al cambiamento climatico e ai diritti umani. Riguardo alle modalità d’integrazione dei criteri ESG nelle strategie di Finanza Sostenibile, è ancora solo dell’8% la percentuale delle società che svolge uno screening ESG sul portafoglio in maniera sistematica, con una percentuale di portafoglio analizzato ancora molto bassa.
> L’applicazione di questi obiettivi all’interno del complesso sistema di obiettivi aziendali è troppo generica, gli obiettivi CSR si rifanno a modelli macro come quello delle Nazioni Unite e non c’è un processo di adattamento di questi obiettivi al contesto specifico di business delle singole aziende.
> Le analisi di performance relative fanno spesso riferimento a benchmarking con database di istituzioni che pubblicano dei ranking di sostenibilità che per la loro composizione sono riferiti alle aziende nella loro interezza e non a specifici processi e non sono utili per orientare specifici processi decisionali.
Per rendere più efficaci i sistemi di misurabilità si rende necessario dare maggiore rilevanza alla capacità delle misure identificate di avere un impatto concreto sulle azioni manageriali (materialità della misura), ovvero di modificare il comportamento decisionale dei manager. Spesso i framework esterni di misurazione danno troppa enfasi agli aspetti formali della misura, al rigore metodologico, piuttosto che alla capacità della misura di orientare il comportamento manageriale.5
Come impiegare le prospettive CSR negli incentivi economici. Il dibattito aziendale sembra essere ancora legato alla dialettica tra bonus annuale e piani di stock option, mentre la questione principale è rappresentata dalla consistenza e dalla permanenza nel tempo dell’incentivo prescelto . In altri termini, considerando che le evidenze empiriche mostrano un notevole tempo di apprendimento, il fattore chiave risulta la continuità dell’incentivo prescelto.
Rendita manageriale. Secondo uno studio di Willis Tower Watson, uscito a marzo 2020, dedicato all’impiego delle misure ESG negli obiettivi di performance manageriale delle imprese dell’S&P500, emerge un quadro, in cui il 51% di queste imprese ha adottato incentivi ESG e che il tasso di raggiungimento degli incentivi per questi obiettivi è particolarmente elevato ( circa il 70%, con punte anche al 100% per gli obiettivi di Governance). Sembrerebbe dunque che sia più semplice ottenere dei bonus quando l’incentivo assegnato è basato su CSR. In questo contesto si possono annidare comportamenti di rendita manageriale, in cui il manager chiede che gli vengano assegnati degli obiettivi di CSR non per voler sviluppare le performance di sostenibilità aziendale ma perché è più facile con questi obiettivi ottenere il bonus. Questo meccanismo può di fatto incrinare il meccanismo di pay for performance che dovrebbe sempre rappresentare la base del sistema degli incentivi.
Il risk management orientato alla CSR. Parallelamente all’integrazione della sostenibilità nei business model aziendali, appare evidente la necessità dell’analogo processo di integrazione della sostenibilità nei processi di risk management. L’evoluzione del framework normativo, che rappresenta sempre un driver di sviluppo della disciplina del risk management, ha portato all’integrazione in un unico sistema delle prescrizioni per la gestione organica dei rischi d’impresa.6 Il quadro normativo unitamente alle evidenze aziendali mostrano la chiara esigenza di definire un nuovo ERM che può chiaramente essere codificato come un SERM – Sustainable Enterprise Risk Management.
Conclusioni
La crisi è intervenuta in un momento in cui, in Italia, in media la CSR come cultura e come prassi aziendale, era ancora in una fase di transizione. In tale contesto, da un lato le imprese e le istituzioni potrebbero cercare delle scorciatoie per far fronte al calo di redditività e ridurre gli investimenti CSR, e, in generale, sul versante della gestione di rischi. D’altra parte la stessa crisi ha messo in luce l’importanza di alcuni elementi micro e macro, sostanziali e culturali, che possono giocare a favore del consolidamento della CSR:
> L’importanza di sistemi di risk management strutturati, secondo un modello più esteso possibile.
> La digitalizzazione come fattore strategico di successo. Qui il nesso con la CSR, è forse meno evidente a livello micro, ma a livello macro ed aggregato, a mio avviso, appare chiaro il legame. Maggiore digitalizzazione comporta un miglioramento delle condizioni complessive dei lavoratori (escludendo le paure irrazionali di una perdita di lavoro e forse di potere negoziale), pensiamo al ruolo positivo dello smart working sul work-life balance, sulla tutela della donna e della maternità, etc., ha impatti positivi sull’ambiente e sulla vivibilità complessiva delle società.
> Il senso di comunità che si è creato durante la crisi, sia a livello sociale che delle singole aziende che, se opportunamente rielaborato, può rappresentare un substrato culturale decisamente favorevole alle tematiche CSR.
> La rinnovata sensibilità dei policy makers nei confronti delle tematiche CSR. Come emerge dall’analisi dello sviluppo delle teorie e delle prassi CSR, un potente fattore di stimolo nella direzione CSR è stato rappresentato dalle indicazioni proveniente da organizzazioni pubbliche o con finalità pubblicistiche. Oltre all’importanza della dimensione culturale del fenomeno, appare possibile ipotizzare nuove forme di incentivo economico a favore di politiche CSR.
Per poter rilanciare il tema della CSR nel contesto attuale vi sono alcuni temi di fondo che rientrano nelle leve di azione delle singole aziende e che possono essere sintetizzati come segue:
> Dalla giustapposizione all’integrazione. La CSR deve diventare una dimensione pervasiva della strategia e dei processi aziendali e non rimanere una dimensione separata dal business model che in quanto tale rappresenta un mero costo e non piuttosto un investimento.
> Consistenza e materialità dei sistemi di incentivi orientati al CSR. Sono richiesti framework declinati sul contesto specifico aziendale e di business, e non su elaborazioni e richiami a contesti generici definiti da organismi lontani dalle realtà concrete di business. Le misurazioni devono essere specifiche e devono influenzare il sistema di management accounting, ovvero il sistema che fornisce la base per determinare le decisioni aziendali.
> Sustainable Enterprise Risk Management, che superi il precedente ERM e che si sviluppi in parallelo con il processo di integrazione della CSR nel business model aziendale, o meglio insieme al sistema di incentivi orientati al CSR, faccia da driver del cambiamento aziendale nella direzione CSR. Il framework normativo attuale non solo lo cons ente ma lo indica in modo chiaro.
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